Sono lontani i tempi in cui un’etichetta di vino era un semplice rettangolo di carta incollato sulla bottiglia che doveva dirci il tipo di vino, l’annata e l’azienda produttrice! Oggi, nell’epoca dell’immagine, la “vera” etichetta è diventata la retro etichetta, dove sono riportate le diciture di legge (chi ha prodotto e imbottigliato, il contenuto, la gradazione alcolica, la denominazione d’origine e l’annata, i dati ambientali e nutrizionali, etc.), gremita di testi a volte illeggibili e di simboli, mentre l’etichetta frontale, sempre più concettuale, con i font giusti, con i contrasti di colore, insomma, con un design iconico, ha assunto la funzione di comunicare e dare l’immagine dell’azienda produttrice. In questa ottica, creare un’etichetta è diventato sempre più un lavoro da specialisti che coinvolge intelligenze, culture, linguaggi, e azzeccarla, soprattutto per i vini che finiscono sugli scaffali delle enoteche, certo, ma soprattutto della grande distribuzione organizzata, è diventato fondamentale. Perché un’etichetta indovinata, una bella etichetta, fa la differenza – così si dice- , e di conseguenza, anche se il contenuto dovrebbe essere più importante del contenitore, motiva il consumatore, aiuta a vendere!
L’etichetta può decretare la fortuna di un vino: un ottimo vino senza una veste adeguata perde di appeal?
Il successo del vino dipende anche dal modo in cui l’etichetta lo rappresenta. E’ il primo impatto con il consumatore, impatto che può essere decisivo sull’acquisto! In questi anni il mondo del vino si è evoluto molto, sia nei metodi di produzione, che nel modo di affrontare il mercato. Da innocuo distintivo, l’etichetta è diventata arma strategica. Inoltre, contribuisce alla strategia promozionale dell’azienda, che parte dalla definizione del brand e della sua immagine coordinata e si completa con il packaging, la pubblicità, la comunicazione multimediale, gli allestimenti per le fiere, etc.
C’è una domanda in Irpinia di servizi avanzati e qualificati di comunicazione?
Da me viene il giovane imprenditore che ha studiato e capisce l’importanza di una comunicazione visiva efficace, realtà emergenti dell’enologia irpina, o l’agricoltore biologico che mi chiede come comunicare al meglio la sua piccola produzione, ovvero il produttore con diversi anni di commercializzazione alle spalle in cerca di un’immagine più forte sul mercato, ma raramente mi confronto con esperti di marketing in grado di fornire suggerimenti a partire dai quali organizzare il lavoro. Credo che da noi manchi un management qualificato che possa sollevare l’imprenditore dall’occuparsi di tutto, ma una qualche responsabilità risiede anche nella nota tendenza degli imprenditori locali a fare da sé. Questo è forse uno dei principali problemi: la presenza di una committenza orientata prevalentemente al risparmio e scarsamente consapevole delle potenzialità della comunicazione!
Invece, il committente ha un ruolo importante nella nascita dell’etichetta.
E’ una figura fondamentale, perché ci fornisce dei dati indispensabili. Innanzitutto, il mercato di riferimento, le modalità di commercializzazione – ad esempio tramite ristorante, negozio gourmet o grande distribuzione – la fascia di prezzo in cui si colloca e, ovviamente, il target del consumatore. Infatti, in base al destinatario il linguaggio visivo cambia completamente. Ma un errore da non commettere è quello di lasciare intervenire il committente per apportare delle modifiche all’etichetta, che spesso determinano solo confusione e perdita di efficacia. E’ difficile far capire la differenza tra il “funzionale” ed il “mi piace”!
Quali gli elementi cui dare risalto in etichetta? Molte nostre cantine hanno un nome altisonante e sulle bottiglie c’è uno stemma, un castello, oppure dipinti e paesaggi…
Operiamo in un mercato con un’offerta eccessiva: la competizione visiva è estrema! Affinché un prodotto risulti vincente non ci sono elementi fissi e modalità prestabilite. In generale, “caricare” eccessivamente l’etichetta di inutili orpelli determina solo confusione: messaggi contorti non arrivano mai e li sconsiglio. Noto che molte cantine irpine hanno un’immagine tradizionale e capisco la ragione: tentare di far assurgere il proprio vino a prodotto elitario e trasmettere una presunta origine storica. Ma se non sei nobile, se non hai uno stemma di famiglia, perché mai usarlo? E’ un falso, mentre tutti gli elementi che figurano su un’etichetta devono essere veri!
In questi casi è meglio pensare ad un re-design dell’etichetta, ma è un’operazione delicata!
Certamente. Se il vino ha un’immagine molto conosciuta non deve mai essere stravolto perché in questo modo si confonderebbe il consumatore. In questi casi è bene tornare al concetto originario e giungere ad un’immagine con nuovi equilibri. Tuttavia, repentini cambiamenti d’immagine o addirittura la coesistenza di linee di prodotto totalmente differenti tra loro vanno a scapito della memorizzazione del marchio e della fidelizzazione del prodotto.
Il re-design dell’etichetta “Fattoria Vinicola Titomanlio” – Sorbo Serpico del 1950 ha affrontato il tema della storia e della nostalgia con un linguaggio consono ai tempi moderni. È un equilibrio tra guardare al futuro, rispettando il passato. Riannodare un filo interrotto per collegare il presente, si spera, al futuro.
Approccio modernista e metodo “artigianale” è una possibile coesistenza?
Un’etichetta nasce da uno studio approfondito dell’azienda, degli obiettivi e delle ambizioni della proprietà, del posizionamento sul mercato e di molte altre variabili. Ma non solo, i miei lavori quasi sempre hanno bisogno di tempi lunghi, di visite alla cantina per raccogliere e valutare una quantità di informazioni e mi piace visitare le vigne, il paese: ci torno da sola anche più volte! La realizzazione creativa viene dopo. Anche il processo esecutivo di stampa è impegnativo, faccio molte “prove”! Ci vuole occhio, come per la sartoria, perché ogni volta si tratta di cucire un vestito su misura. Ecco, l’aspetto artigianale.
La cifra del mio lavoro è diventata la “territorialità”.
Ideare un’etichetta non può essere solo un fatto estetico, per me è importante trasmettere i concetti legati alla storia della famiglia, del territorio di produzione e del vino. Nel progetto incidono la qualità tecnica, le finiture e i materiali utilizzati, ma è fondamentale il racconto e la sua comprensibilità a colpo d’occhio! Il vino è emozione, racconto, storia, tradizione che dobbiamo interpretare con un design che sia “sintatticamente corretto e semanticamente coerente”, direbbe il Maestro Vignelli!
Facciamo qualche esempio?
Prendiamo le due etichette che avvolgono le bottiglie di vino spumante e rosato di Candriano®, azienda agricola familiare di Torella dei Lombardi – in Alta Irpinia- che rappresentano il territorio di produzione del vino già a partire dal nome: Giri falco e Deamefite. Ma solo il nome non basta! E allora con l’approccio di architetto, più che di wine designer, ho costruito un progetto di comunicazione che ha coinvolto l’illustratrice Gaia Guarino e la scrittrice Emilia Bersabea Cirillo, altri talenti irpini. Abbiamo lavorato sul fattore emotivo che la grafica può trasmettere: una citazione letteraria, anzi poetica, tratta dal libro di Emilia Bersabea Cirillo, un viaggio in Irpinia descritto con grande sentimento dall’autrice, e un’illustrazione che sviluppa la narrazione del testo con lo stile onirico, pieno di dettagli che caratterizza il tratto di Gaia Guarino. Il concept è il “terroir” in senso lato, cioè non solo come rapporto che lega un vitigno al microclima e alle caratteristiche minerali del suolo in cui è coltivato, ma anche tutti quei fattori umani e antropici, concentrati in uno specifico territorio che determinano il carattere e l’unicità del vino prodotto.
Due etichette che sono stralci di una guida turistica dell’Irpinia che propone la lettura della Dea Mefite, come divinità italica legata al culto delle acque e della fecondità della terra, così come nell’interpretazione dell’autrice e dell’illustratrice, e la descrizione della torre Girifalco di origine normanna immersa nel folto bosco di alberi di quercia fuori dall’abitato di Torella.
Come sarà l’etichetta del domani in cui l’esportazione dei vini rappresenta una grande percentuale?
Dobbiamo affrontare l’argomento pensando ad un mercato globale. Chi conosce i nomi guarda i nomi, ma la maggior parte sceglie dall’etichetta. E questo ha valore soprattutto nei nuovi mercati, che non conoscono i nostri grandi marchi: polacchi, russi o cinesi, non conoscono il vino italiano, tanto meno irpino! E’ molto complicato pensare un’immagine adatta al mercato globale, ad un pubblico planetario e culture completamente diverse, specie per un prodotto quale il vino la cui identità grafica deve rimandare necessariamente alla provenienza di origine. Credo che sia molto importante non adeguarsi al paese destinatario, ma riferirci alla nostra cultura che dovrà trasparire dall’immagine del packaging per dare immediatamente al consumatore globale l’idea della provenienza. Dobbiamo essere consapevoli delle nostre eccellenze e raccontarle al meglio anche attraverso il design. Consiglio sincerità e consapevolezza per trasmettere al mondo i valori immateriali che connotano i nostri prodotti, valorizzandoli però a livello “multisensoriale”.
Le etichette dell’azienda agricola Orneta di Ariano Irpino, luogo custode dell’antica produzione artigianale e artistica della ceramica smaltata, rivolgono lo sguardo ai valori del passato, alle radici storiche del territorio campano, ma ponderando accuratamente il linguaggio espressivo. Al centro dell’etichetta del vino c’è un frammento di un trattato fondamentale per le Scienze agrarie, il “De Re rustica” del Columella, autore latino del I sec. d. C., e una maiolica arianese. Le quattro etichette prevedono altrettanti colori per ciascuna tipologia produttiva: il colore naturalmente vinoso del mosto per il Taurasi e il turchese per l’Aglianico, il verdolino per il Fiano e un perlato per il Greco e, infine la freschezza giovanile di un lilla lavanda abbinato alla Campania Falanghina IGT.
Entrano mai in gioco meccanismi imitativi, tipo “mi piace quell’etichetta, vorrei che fosse uguale a quella”?
In merito alla riconoscibilità del prodotto e del produttore si osserva anche localmente il fenomeno del cosiddetto look-alike, cioè un’imitazione consapevole del prodotto altrui avendo però cura di differenziarsi dal prodotto imitato per sfuggire alle ipotesi più classiche di contraffazione. Questo si materializza, ad esempio, nella realizzazione di etichette del tutto simili alle originali per cromatismo e grafica, facendo attenzione a differenziarsi nei marchi dei modelli protetti, che nel mondo del vino generalmente si limitano al nome del produttore o dello stesso vino. Attenzione, questo fenomeno genera confusione nel consumatore, rendendo vaga la strategia di comunicazione dell’azienda originale e ledendo così la propria reputazione e la fiducia dei consumatori!